A partire dagli anni ‘80 si è progressivamente sviluppata una corrente di pensiero che considera l’organizzazione come un’“area emozionale” all’interno della quale si generano, si manifestano e circolano intense emozioni che incidono sulle relazioni interpersonali e, conseguentemente, sui processi di lavoro. Ci si è resi conto, pertanto, dell’assoluta necessità di adottare atteggiamenti e comportamenti appropriati al ruolo ed in grado di orientare gli stili relazionali delle varie figure organizzative. Di qui l’importanza delle competenze socio-emotive che devono indurre il management ad una visione più consapevole del mondo emotivo e, soprattutto, permettere il riconoscimento, la valutazione e la gestione delle emozioni proprie ed altrui.
Al riguardo Daniel Goleman ha sottolineato come ogni leader abbia bisogno di un livello di intelligenza emotiva tale da permettergli di cogliere le sfide che quotidianamente si trova ad affrontare. Le capacità intellettuali, la chiarezza di pensiero e le correlate competenze tecniche non sono, però, più ritenute sufficienti per “creare” un vero capo. I leaders realizzano un’idea e raggiungono i loro obiettivi motivando, guidando, ispirando, ascoltando, convincendo, generando entusiasmo e, soprattutto, creando risonanza. L’arte della leadership risonante (Annie McKee, Richard E. Boyatzis, Frances Johnston) è, quindi, quella di coltivare un’atmosfera di fiducia e collaborazione attraverso un’interazione equilibrata fra intelletto ed emozioni.
Naturalmente, per prendere decisioni adeguate i leader non possono fare a meno delle proprie capacità razionali, ma se la loro leadership si fondasse esclusivamente sul quoziente intellettivo e sulle competenze strettamente professionali si rischierebbe di non avere il controllo di una parte importante del contesto lavorativo. Dirigenti che si comportano in modo aggressivo o distruttivo in termini di motivazione dovrebbero avere, quindi, “vita difficile” in un mondo del lavoro orientato al contemporaneo raggiungimento dei risultati organizzativi e del benessere delle persone che compongono la comunità lavorativa.
In realtà certi tipi di “leadership tossica” non sono infrequenti nei contesti organizzativi dove prevale l’enfasi sulla competizione e sul decisionismo. Un soggetto duro ed aggressivo in questi casi può essere percepito come assertivo, risoluto o determinato così come un personaggio manipolatorio e cinico può essere giudicato come una persona abile nella negoziazione. In questi casi si sottovaluta il potere devastante di un capo che abbia comportamenti organizzativi destabilizzanti.
Stili di leadership, che possono avere un senso in circostanze assai specifiche o che potevano avere una ragione in anni passati, sono oggi del tutto fuori contesto. La diffusione di stati d’animo negativi può rappresentare, infatti, un grave handicap per l’organizzazione, in particolar modo se questa è guidata da gruppi o dirigenti lacerati da discordie interne. Un capo “dissonante”, che non sappia padroneggiare la dimensione emotiva, invia messaggi emotivamente dolorosi e sgradevoli spesso ignorando (o non curandosene) il proprio potenziale distruttivo. Tale inadeguatezza rischia di alimentare stress, scarso rendimento e disimpegno, climi conflittuali, demotivazione.
I leaders con un elevato livello di competenza emotiva sono in grado, al contrario, di comprendere e regolare le emozioni al fine di raggiungere e mantenere uno stato d’animo positivo, un alto livello di autostima e una maggiore capacità di resistenza a situazioni che possono minacciare la fiducia in sé stessi. Così come la dissonanza rinvia concettualmente alla mancanza di armonia e ad un suono “spiacevole e stridente” anche la leadership dissonante contribuisce a creare gruppi “emotivamente disarmonici”, in cui cioè le persone si sentono costantemente stonate e fuori posto (Goleman). Al capo despota (che offende e umilia le persone) si possono contrappore coloro che in modo più sottile “..sfruttano un fascino di facciata,…e persino un certo carisma, per ingannare e manipolare gli altri..” verso cui, in realtà, non provano alcuna empatia. Denominatore comune in questi casi è la scia di disinteresse, apatia, rabbia e risentimento che queste persone lasciano dietro di sé.
In sostanza sono i capi per i quali nessuno vorrebbe mai lavorare.
Proprio queste, in definitiva, possono essere le condizioni ideali affinchè si sviluppino nelle organizzazioni quelle tipiche minacce che minano dall’interno la sicurezza. A tale riguardo, secondo uno studio condotto da un gruppo di ricercatori americani, in collaborazione con un’equipe di Cyber Security Researcher, più del 50% delle organizzazioni intervistate confermano attacchi interni ai propri sistemi informatici nei 12 mesi precedenti, e il 27% conferma un aumento di frequenza del fenomeno dell’insider threats. il Verizon Insider Threat Report 2019, tra le tipologie di personalità che possono minacciare un’azienda dall’interno identifica il lavoratore distratto, il dipendente insoddisfatto, l’agente infiltrato.
Laddove le azioni sono intenzionali si possono verificare non solo furti e sottrazioni di dati ma anche forme di sabotaggio mediante l’inserimento intenzionale di certi codici atti a provocare problemi e azioni sconvenienti ai danni di un software o di un sistema informatico, causando la perdita o il degrado delle risorse o delle capacità dell’organizzazione di svolgere la propria missione o funzione aziendale.
In questo senso, oltre alle naturali azioni di monitoraggio e controllo, forse sarebbe importante implementare, tra le misure organizzative, policies improntante allo sviluppo di competente personali e…orientate ad una leadership “risonante”.
La leadership “dissonante”
Un “capo” che non sa padroneggiare la dimensione emotiva rischia di alimentare stress, scarso rendimento e disimpegno, climi conflittuali, demotivazione: Le condizioni ideali perché si sviluppino “insider threats”.
- by Gaetano Mastropierro